"Ognuno di noi contiene moltitudini, e in quanto femministe glitch, non abbiamo uno ma tanti corpi".
Partendo dal principio - ereditato, in parte, da Simone de Beauvoir - che "corpo non si nasce, lo si diventa", Legacy Russell struttura il suo manifesto glitch, o meglio, il manifesto della sua comunità di appartenenza, formata da artisti queer che rivendicano l'uso di corpi feticizzati e marginalizzati, attivisti che hanno fatto del digitale il loro luogo, uno spazio in cui sperimentare ibridando la fisicità con la filosofia cyborg. È una prima persona plurale quella che si fa soggetto, non si è mai soli nel processo di ristrutturazione del reale e di costruzioni di nuovi immaginari. Perché è questo l'obiettivo del femminismo glitch: "mandare in cortocircuito il maledetto sistema" per preparare il terreno "al futuro caleidoscopico che desideriamo".
Glitch è un termine ripreso dalla tecnica, vuol dire errore, imprevisto. Abbracciare un malfunzionamento significa rifiutare il sistema dato, rifiutarlo e registrare l'anomalia. Glitch è una negazione critica al mainstream ma è anche un'opportunità, una strategia di disobbedienza e una forma d'espressione del sé. Spesso il glitch è associato a un vero e proprio effetto visivo presente sugli schermi, una deformazione di un'immagine, di un suono. Uno squarcio che lascia intravedere un mondo che sta al di sotto della superficie. "Un moto di liberazione in cui immergersi per demolire i limiti che definiscono il genere, la razza e l’identità sessuale". Il glitch diventa il simbolo di un femminismo profondamente digitale, che vede il cyberspazio come “una stanza tutta per sé” in cui esplorare ed espandere la propria identità. Ecco allora la rassegna di artisti e attivisti QTPOCI+ (Queer & Trans, People of Color, Indigenous) che indagano le relazioni che si sviluppano tra genere, identità e tecnologia e si domandano se c'è modo di andare oltre il corpo così come ci è stato "consegnato" e per ribellarsi al binarismo di genere. Proprio il digitale e la creazione di avatar genderless, così come le infinite sperimentazioni e i "travestimenti" che ognuno di noi attua online, potrebbero essere una strada percorribile, nonostante tutti i limiti e le criticità legate alla Rete.
La parte più interessante del saggio è la critica al "dualismo digitale" che troppo spesso distingue il tempo passato allo schermo e il tempo passato nel mondo, semplificando la relazione tra il mondo online e quello “away from keyboard” ovvero "distante dalla tastiera". Questo termine - AFK - è decisamente preferito dall'autrice rispetto a IRL - "In Real Life"- perché quest’ultimo suggerisce che la vita online non sia vita reale bensì una semplice fantasia, mentre tutto il libro si basa proprio sul registrare l’impatto che abbiamo online e le sue ramificazioni all’interno di uno spazio offline. Per tante comunità infatti il cyberspazio è un luogo sicuro, di accettazione, in cui vivere ed esprimere se stessi in libertà mentre l'offline è un mondo violento e discriminatorio.
È una lettura che fa quello che promette: squarcia l'unico schermo che credevi dovessi guardare e ti fa vedere cosa c'è dietro. Una commistione tra critica d'arte contemporanea (un po' malriuscita considerando che quando si parla di opere visuali, non si capisce quasi NIENTE di come siano fatte) e manifesto attivista.
Per chi cerca qualcosa di decisamente diverso rispetto al canone.
Avvertenze: si ammanta di una retorica poco esplicativa e possiede una specificità metropolitana newyorkcentrica che potrebbe non interessare ai più.